I. Le Italie di Manet
L’influenza dell’arte italiana nella formazione e nella ricerca espressiva di Manet ha radici profonde e precoci. Lo studio dei maestri italiani si intensifica dopo il primo viaggio in Italia, nel 1853, con destinazione Venezia – per quasi un mese -, poi Firenze e forse Roma. Sono del 1854, ad esempio, la copia dell’intenso Autoritratto di Tintoretto e della Venere del Pardo di Tiziano. Nel 1856 lascia lo studio di Couture e l’anno dopo torna in Italia, a Firenze: copia dipinti e disegni agli Uffizi, gli affreschi di Andrea del Sarto della Santissima Annunziata, i rilievi di Luca della Robbia al Duomo e molto altro, realizzando oltre centoquaranta opere. Le opere qui esposte documentano con cura questo percorso e ne seguono l’evoluzione fino al primo capolavoro e primo scandalo, quel Déjeuner sur l’herbe rivoluzionario, sconvolgente e rifiutato dai contemporanei per la sfrontatezza con cui ribalta il significato delle esplicite citazioni classiche, per i rimandi autobiografici “cifrati” e la sottesa critica ai pregiudizi sociali del tempo, per la strana, inquietante incomunicabilità di cui è pervaso, e, naturalmente, per i modi pittorici del tutto nuovi e allora incomprensibili.
II. I destini di Venere
In questa sala, dominata dall’eccezionale, imperdibile accostamento tra la Venere d’Urbino di Tiziano e l’Olympia di Manet, si sottolinea il particolare ruolo della pittura veneziana del Cinquecento nell’ispirazione di Édouard. Tiziano e Veronese per la Donna con la brocca – la prima raffigurazione di Suzanne – e Tintoretto per l’elaborato ritratto dei genitori: pittura veneziana apprezzata, studiata, filtrata nella vita stessa. I due dipinti hanno molti punti in comune anche se un senso assai diverso: il nudo sottolineato dalla presenza di gioielli (e pantofole in Olympia), la postura, l’animale (cagnolino, simbolo di fedeltà in Venere che Tiziano dipinge come quadro nuziale; gatto, simbolo demoniaco in Olympia), la scansione verticale dello spazio retrostante e le ancelle (sfondo sereno, familiare e luminoso in Venere, scuro ed evocativo di lussuria in Olympia), la luce (calda e diffusa in Venere, fredda e cruda in Olympia), la mano sinistra sul pube (un morbido tocco in Venere, una sorta di sbarramento in Olympia), lo sguardo rivolto allo spettatore. Ma mentre quello di Venere trasmette un languore erotico e denso di promesse, Olympia squadra l’osservatore con occhio indifferente.
III. Nord/Sud (Nature Morte)
Le nature morte di Manet parlano, secondo il tradizionale significato di questo genere pittorico, di vita e di morte e si ispirano da un lato ai modi della scuola nordica (olandese in particolare) e, dall’altro, a quelle francesi e italiane. Molti i quadretti destinati a essere donati: ad amici come Antonin Proust (Il Limone) o Champfleury (le Peonie bianche con forbice); a critici come Théophile Thoré (Stelo di peonie e forbici); a collezionisti come Charles Ephrussi (L’Asparago). La piccola, preziosa Sala degli Stucchi che ospita questa sezione della mostra presenta, ai due lati della porta che immette alla successiva, due scene sacre. Esse preannunciano il tema della prossima sezione e perciò sono state integrate nel percorso espositivo.
IV. Solitudine di Gesù
Cresciuto nella fede cattolica, Manet si cimenta in alcune toccanti rappresentazioni del Cristo e della sua Passione, per cui le fonti di ispirazione italiane giocano un ruolo fondamentale (e a lungo sottovalutato), come dimostrano le opere qui esposte. Dei due disegni, uno è un recente, straordinario ritrovamento, esposto qui al pubblico per la prima volta. Si tratta di un Cristo dolente nella solitudine del sepolcro, spoglio, desolato, quasi monocromo, ripreso da Manet nel 1857 da uno degli affreschi di Andrea del Sarto della Basilica della Santissima Annunziata di Firenze. L’altro è un acquerello che riprende il Cristo morto con angeli presentato – senza successo – al Salon del 1864, in cui emergono chiaramente i riferimenti non solo all’affresco di Andrea del Sarto, ma anche a iconografie come quella del capolavoro di Antonello da Messina appartenente alle collezioni del Museo Correr qui esposto, assieme ai due disegni, proprio per evidenziare i possibili rimandi. L’altra parete è occupata invece dal Cristo insultato dai soldati di Manet, esposto al Salon del 1865 assieme a Olympia, pesantemente criticato, ritenuto oltraggioso e inguardabile.
V. Una Spagna molto ibrida
Manet visita la Spagna solo nel 1865. Al Prado resta folgorato da Velázquez, ma aveva già avuto modo di apprezzare al Louvre le tele di Goya, El Greco e dello stesso Velázquez che, dal 1838 al 1848, componevano la “galleria spagnola” di Luigi Filippo. L’ispanismo del resto è di gran moda nella Parigi dell’epoca ed è appunto esponendo un Chitarrista spagnolo al Salon del 1861 che Manet riscuote un successo che negli anni successivi non si ripeterà. Lola Melea è l’étoile di una compagnia spagnola di balletti che riscuote nel 1862 enorme successo all’Hippodrome di Parigi. Manet la riprende in un celebre ritratto pensato originariamente su uno sfondo monocromo nello spirito di Velázquez, che anni dopo modificherà. La posa è ripresa da Goya ma l’ampiezza della gonna rimanda a Watteau. Indecifrabile e drammatico è il ragazzino in uniforme ritratto in Le Fifre (il Piffero): lo sguardo vuoto e la tragicità dell’immagine sbalzata sullo sfondo, anch’esso vuoto, ci colpiscono con forza, evocando una sorta di solitudine silenziosa (a dispetto dello strumento musicale). Lo sfondo è ancora quello di Velásquez, ma nella figura troviamo la stessa fragilità del Ragazzo con la spada, ispirato da Gozzoli. Manet pensava di conquistare con questa tela il pubblico del Salon del 1866, ove, invece, non sarà neanche accettato.
VI. Tra musica e teatro
Questa sala e le due successive illustrano con diverse angolazioni il rapporto di Manet con la cultura e la società del suo tempo. Nelle opere esposte in questa sala si evidenziano sia – ancora – i rimandi classici (il Concerto campestre nella Lezione di Musica, la simbologia della musica come “arte del tempo” nella Giovane dama al Piano) sia una maggiore attenzione ai gusti e alla società dell’epoca, ma anche – come sempre – l’indipendenza creativa dell’artista e il suo collocarsi al di fuori delle convenzioni. Ecco che allora il Balcon – apparentemente inscritto in un genere allora alla moda, quello della rappresentazione di una scena di vita alto-borghese – ritrae piuttosto tre persone eleganti ma incapaci di dialogare, ognuna delle quali rivolge all’esterno uno sguardo diverso e isolato, come perduto in un proprio sogno interiore. Proprio questo ha suggerito l’accostamento in mostra alle Due Dame di Carpaccio,“perse”anche loro in una situazione sospesa, e immerse in segreti, indecifrabili pensieri.
VII. Parnaso contemporaneo
Manet è il solo ad aver abbattuto le barriere tra estetiche diverse, dialogando con Naturalismo, Parnaso poetico e primo Simbolismo, in un fitto intreccio di relazioni fertili e strategiche per l’arte e la vita stessa del pittore. Su di esse, questa sala presenta, oltre a celebri dipinti, illustrazioni, documenti, testimonianze. Nel ’67 Manet espone al Salon il ritratto di Zola, facendone una sorta di manifesto di un sodalizio culturale. Nel contempo è aperto alla collaborazione con altre avanguardie del tempo, partecipando, tra l’altro, all’impresa dei Sonnets et eaux-fortes, raccolta di quarantadue poesie e incisioni a fronte, firmate da altrettanti artisti. Con Stéphane Mallarmé trasformano la pubblicazione del Corvo di Edgar Allan Poe in un libro d’arte e, ancora insieme, danno vita a Il pomeriggio d’un fauno, capolavoro di ermetismo poetico e lusso editoriale. Nello stesso anno Manet ritrae l’amico poeta: nel dipinto il fumo del sigaro è la metafora della rarefazione del linguaggio di Mallarmè.
VIII. Manet pittore della società
Gli anni ’70 si aprono con i drammatici avvenimenti della guerra franco-prussiana (cui Manet partecipa), della Comune di Parigi, della caduta del Secondo Impero e dell’avvento della Terza Repubblica. Nell’ispirazione, prendono il sopravvento soggetti legati alla società contemporanea: il volto di Berthe Morisot (amica, collega, modella e, dal 1874, cognata di Manet) esprime al meglio questa tendenza. Inizia in questi anni a dipingere soggetti ripresi “in esterni” – come Sulla Spiaggia, qui esposto – ma restando fedele a una base psicologica profonda, a un’impostazione da “pittore di storia”. Nel ’79, il governo è passato ai radicali e Manet, trasferito in un altro, più spazioso atelier, si circonda di ammiratori, critici, musicisti, pittori, politici come l’amico di sempre Antonin Proust che nell’81 diventa ministro o Georges Clemenceau, di cui abbiamo appena visto il ritratto eseguito con pochi tratti, senza sfondo e una grande potenza di immedesimazione.
IX. Il mare all’infinito…
Il tema del mare, su cui Manet torna in circa quaranta opere, è condizionato sia dall’esperienza giovanile (l’imbarco in una nave scuola a 16 anni), sia dalle frequenti vacanze – a partire dal 1865 – sulle coste del Nord della Francia, sia, anche, dalla potenzialità commerciale del genere: è proprio uno dei dipinti di questa sala, Boulogne, Chiaro di luna, a stimolare il mercante Paul Durand-Ruel ad acquistare questa e molte altre tele di Manet, dando di fatto una svolta alla sua carriera. Anche un altro collezionista, il baritono Jean-Baptiste Faure, predilige le marine ed è lui ad acquistare nel ’75 la Veduta di Venezia qui esposta, uno dei più alti esiti della produzione dell’artista di questa fase, in cui si dispiega un’incredibile gamma di luci e di colori. Il dipinto è realizzato durante il secondo soggiorno di Manet a Venezia, che avviene nel settembre 1874. Questo soggiorno veneziano si inserisce dunque in un importante momento creativo, quando decide di dedicarsi alla luce, ai soggetti in movimento, al tocco spezzato: su tutto ciò, Venezia è una inevitabile e strategica fonte d’ispirazione. La Fuga di Rochefort, qui esposta, è ad esempio l’ultimo grande progetto di Manet, pensato per il Salon del 1883, cui l’artista – stroncato dalla malattia il 30 aprile – non arriverà. Qui il tema del racconto della fuga di un oppositore politico contemporaneo si intreccia a quello, eterno e romantico, della vastità infinita dell’oceano.