Jacopo Negretti detto Palma il Giovane (Venezia, 1544/1628)
Modello per il Paradiso, 1582 circa
Olio su tela, 125 x 410 cm
Milano, Pinacoteca Ambrosiana
Cristo giudice, da cui promana una luce intensa, è il centro di una composizione sferica. Alla sua destra è la Vergine inginocchiata; intorno, volano angeli con trombe, simboli della passione e il libro della legge, mentre l’arcangelo Michele fa oscillare la bilancia. La moltitudine dei giusti è disposta al di sotto senza un ordine gerarchico, lungo archi di nuvole che si succedono in profondità, formando una sorta di cupola capovolta che sfiora il trono del doge e tende ad avvicinarsi allo spettatore coinvolgendolo, anche grazie alle grandi figure in primo piano, con santi addirittura seduti direttamente sulla tribuna della Signoria, alcuni con lo sguardo rivolto verso la sala. Sopra la porta di destra, un’evidente allusione alla cronaca del tempo: l’apocalittico drago dalle sette teste – che continuamente risorge – personifica l’impero ottomano, sconfitto nella battaglia di Lepanto del 1571. Il giovane autore non vince il concorso, forse per l’eccessiva libertà interpretativa del soggetto, ma gli verrà affidata, circa dieci anni dopo, l’esecuzione del grande Giudizio universale nella sala dello Scrutinio.
Paolo Caliari detto Veronese (Verona, 1528 – Venezia, 1588)
Il Paradiso, 1578/1582 circa
Olio e tempera (?) su tela, 87 x 234 cm
Lille, Palais des Beaux-Arts
Questo modello, su cui sono stati operati tagli ai quattro lati, è uno studio preparatorio per la tela presentata al concorso, andata perduta. La Vergine è incoronata non solo da Cristo ma da Dio Padre e dal Figlio insieme, mentre la colomba, simbolo dello Spirito Santo, scende su di loro, emanando una luce che avvolge e attraversa le figure. L’importanza di Maria viene così enfatizzata e, nelle intenzioni di Veronese, associata al Trionfo di Venezia che proprio nel 1582 egli magistralmente rappresenterà sul soffitto che sovrasta questa parte della sala. Le figure sono schierate, rispettando la tradizionale gerarchia celeste, in una sorta di anfiteatro che si restringe progressivamente verso l’alto. L’immensa folla dei beati è costituita di sagome immateriali ed evanescenti, puro spirito. Alle estremità degli illusionistici semicerchi su cui sono disposte, sembrano avanzare verso lo spettatore facendosi più riconoscibili, invitandolo ad identificarsi con loro. Domina, nello studio del colore, il rosa, con grigi verdi e blu, per evocare un Paradiso di pura luce e trascendenza. La commissione del concorso, affascinata dall’idea dell’incoronazione ad opera della Trinità, decide di affidare a Veronese la parte centrale del dipinto, che però dovrà essere completato da Bassano. L’opera non si realizzerà mai.
Francesco da Ponte detto Francesco Bassano (Bassano, 1549 – Venezia, 1592)
Il Paradiso, 1582 circa
Olio su tela, San Pietroburgo, Ermitage
La composizione del dipinto, opposta rispetto a quella di Veronese, è convessa, come se la sfera del paradiso fosse vista dall’esterno. All’estremità superiore, in un globo luminoso e trasparente, la scena dell’incoronazione è ripresa da Guariento, con la Vergine inginocchiata a sinistra, il Figlio seduto a destra e la colomba che scende, circondati da impercettibili ma numerosissimi serafini e cherubini. I personaggi sono disposti in file longitudinali, come i banchi del Maggior Consiglio, e convergono verso la sommità della sfera luminosa, smaterializzandosi poi nella luce. Gli angeli sono più vicini a Dio, i giusti, più in basso, sono invece vicini allo spettatore che in qualche modo è invitato a prendere l’esempio del loro progressivo innalzarsi, sotto la guida di angeli che li precedono. Al centro, un fascio di luce collega l’empireo alla tribuna dogale, creando una sorta di sentiero aperto, lungo il quale si incontrano simboli evocativi di Venezia come il leone di San Marco. Oltre alla tradizionale ripartizione gerarchica di santi e beati, Bassano colloca nel suo Paradiso, in basso a destra, anche una sfarzosa rappresentanza di potenti della terra, tra cui alcuni dogi. Forse per questo la commissione del concorso stabilisce di affidargli il compito di eseguire le figure laterali del dipinto, assegnando la parte centrale a Veronese. Ma l’incompatibilità tra le concezioni dei due pittori, che pure si conoscono e si stimano, renderà impossibile la realizzazione dell’opera.
Jacopo Robusti detto il Tintoretto (Venezia, 1518-1594)
Il Paradiso, 1564 (ritoccato nel 1582)
Olio su tela, 1,43 x 3,62 cm
Parigi, Musée du Louvre
È, questo, uno dei modelli per il Paradiso di mano di Tintoretto giunti fino a noi, intorno ai quali sono fioriti dibattiti e ricerche. L’ipotesi più accreditata per questo dipinto è che Tintoretto lo abbia realizzato prima del concorso, nel 1564 – quando la Repubblica sembrava intenzionata a sostituire l’affresco di Guariento, danneggiato dal tempo – e che lo abbia rimaneggiato nel 1582, per presentarlo al concorso, adeguandolo ai mutamenti del soffitto della sala dovuti ai restauri successivi all’incendio. L’iconografia e la gerarchia celeste tradizionali del paradiso sono rispettate, con Cristo che incorona la Vergine, sovrastati dalla colomba dello Spirito Santo immersa nella luce e vero polo magnetico della composizione. Intorno sono gli Apostoli, come nella Pentecoste. Seguono ellissi concentriche, che progressivamente sfondano la scena per richiudersi idealmente nello spazio tridimensionale della sala e abbracciare l’osservatore, in cui sono disposti prima gli angeli e poi gli evangelisti, i patriarchi e i dottori della chiesa, i profeti. Ai lati della composizione, si trovano i santi e le sante, i guerrieri della fede, i confessori, i martiri, i vescovi…Nudi sono Adamo ed Eva verso sinistra e Maria Maddalena all’estremità destra. Tutti fissano Cristo. Al centro, proprio sopra la tribuna della Signoria, suona un’orchestra di angeli musicanti e la luce illumina la ricca gamma di colori cangianti. La composizione, che riflette l’inquietudine spirituale dell’epoca manierista, evoca forze naturali scatenate in un movimento rotatorio e ascensionale che coinvolge tutti, dagli angeli e i santi fino allo spettatore, rapito in un cono prospettico che ha come punto di fuga l’incoronazione della Vergine. Forse la forza drammatica dell’opera sconcerta la commissione, e Tintoretto non vince, per il momento, la gara.
Jacopo Robusti detto il Tintoretto (Venezia, 1518-1594)
Il Paradiso, 1588 circa
Olio su tela. 164 x 492 cm
Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza
Veronese muore nel 1588 senza aver iniziato, a sei anni dal concorso, la tela con il Paradiso, che avrebbe dovuto realizzare insieme a Bassano. Non si può affermare con certezza che la Repubblica decida allora di bandire un secondo concorso; più probabilmente, Tintoretto, che tiene molto a concludere la sua carriera con quest’opera, realizza per il Senato un nuovo modello, eliminando gli elementi che avevano suscitato dubbi nel precedente e adattandolo al gusto dell’epoca, più fortemente influenzato dalle indicazioni controriformistiche del Concilio di Trento. Ecco che allora le figure diventano più grandi, a partire dal gruppo centrale con Maria e il Figlio; ed ecco che una mano di Cristo si appoggia sul globo, simbolo di imperio sul mondo. Tutti gli spazi sono occupati e i personaggi hanno attitudini tormentate, michelangiolesche. Non c’è più chiarezza compositiva e sulla luce prevalgono i chiaroscuri: il paradiso non è più radioso e anche il collegamento ideale tra l’empireo e la tribuna dogale risulta meno immediato. Ciononostante, nel 1588 la Repubblica affida finalmente l’incarico a Tintoretto: è dunque proprio questo, malgrado le molte differenze con la grande tela finale, il modello vincitore della complessa vicenda del Paradiso di Venezia.
Jacopo Robusti detto il Tintoretto (Venezia, 1518-1594) e Domenico Robusti detto Domenico Tintoretto (Venezia, 1560-1635)
Il Paradiso (1588-1594)
Olio su tela
Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio
A causa delle dimensioni colossali, la tela viene dipinta a pezzi, utilizzando come atelier la grande sala della Scuola della Misericordia, vicina alla bottega del maestro, ed è realizzata in gran parte da Domenico, figlio di Jacopo, che si discosterà per molti aspetti dal progetto del padre, così come illustrato nel modello oggi alla fondazione Thyssen. L’incoronazione della Vergine è sostituita da una Vergine che intercede per Venezia presso Cristo , sormontata dalla colomba dello Spirito Santo e sorretta da una fitta schiera di cherubini e serafini disposti a semicerchio. Ricompare, come in Guariento, un riferimento all’annunciazione nella figura dell’arcangelo Gabriele che porge dei gigli a Maria, la cui aureola è formata da sette stelle. La luce divina promana non più dalla colomba ma da Cristo giudice che regge il globo sormontato da una croce mentre, alla sua destra, l’arcangelo Michele gli porge la bilancia. L’ordine delle gerarchie celesti è rispettato, sia pur sommariamente, ponendo gli evangelisti nel semicerchio immediatamente sottostante, e poi i santi schierati secondo la successione prevista nelle grandi litanie. Non mancano allusioni storiche: tra i santi al centro si riconosce, ad esempio, Santa Giustina, patrona di Padova, la cui ricorrenza cade il 7 ottobre, giorno della battaglia di Lepanto. Dal centro della tribuna un varco di luce si apre verso l‘empireo, consentendo alle anime di salire, aiutate dagli angeli, e alla Grazia di scendere sul doge. Al centro di questo luminoso passaggio si staglia un radioso arcangelo semivelato. La composizione è affollata da circa cinquecento personaggi, minuziosamente descritti, con un effetto finale di grandezza tumultuosa, finalizzato ad accentuare più la celebrazione della Repubblica che il trionfo di Dio. La tela ottiene un successo strepitoso che perdurerà per due secoli; quanto al vecchio Tintoretto – nonostante il primo modello, quello dell’82, fosse molto più vicino alla sua sensibilità e alla sua ispirazione – talmente importante è per lui aver ottenuto la commissione, che chiederà al Senato di ridurgli il compenso.