Palazzo Ducale

Palazzo Ducale

VENEZIA E L'EGITTO

Venezia e l’Egitto

I primi contatti: dal fascino di Cleopatra, all’affermazione del Leone marciano. La conquista dell’Egitto da parte di Cesare aveva facilitato i contatti di Roma con l’Oriente e manufatti e culti egizi non mancarono di giungere e diffondersi lungo le sponde dell’Adriatico: eloquenti sono il tesoretto tolemico di Montebelluna, la testa di sfinge del Museo archeologico di Verona, la Statuetta di Iside conservata ad Aquileia; così come la testa di sacerdote isiaco dal Museo Civico di Trieste o la piccola statuetta bronzea di Anubi, del I-II secolo d.C., rinvenuta a Costabissara vicino a Vicenza. E se Cleopatra e la storia d’amore con Antonio, da cui esplose clamorosamente l’interesse occidentale nei confronti dell’Egitto, vengono rievocati ad inizio percorso attraverso alcune monete raffiguranti la regina e i due condottieri romani suoi amanti, sarà l’opera monumentale di Francesco Fontebasso il Banchetto di Cleopatra, appartenente alla collezione Terruzzi, a rievocare – nel seguito del percorso – il fascino e il mito della sovrana egiziaUn’antichissima testimonianza dei contatti tra l’area veneta e quella egiziana si ritrovadel resto nella leggenda che fa di Marco evangelista il fondatore della chiesa alessandrina e l’evangelizzatore della X regio, che comprendeva la Venetia e l’Histria e aveva il suo capoluogo nella metropoli di Aquileia; così come alla medesima tradizione appartiene anche il dono, nel 630, dall’Imperatore bizantino Eraclio al patriarca di Grado, della cattedra di San Marco proveniente da Alessandria e conservata ora – inamovibile – nel Tesoro marciano: tesoro da cui giungono in mostra, a documentare i contatti dei secoli successivi, alcune preziosissime opere come l’Urna di Artaserse I o l’Ampolla degli Arieti realizzata al Cairo alla fine del X secolo. Ecco dunque che la figura di San Marco – di cui si ha una raffinatissima immagine nella tavola di Lorenzo Veneziano – diventa nodale non solo nella legittimazione dell’autonomia politica e religiosa della Serenissima ma anche nell’immaginario della millenaria relazione tra Venezia e l’Egitto e in particolare tra la Serenissima e Alessandria, da dove partì il lungo viaggio per mare dei due mercanti, Bono e Rustico, che condussero a Venezia le spoglie del santo. Un multimediale in mostra ci permette di “scrutare” i dettagli dei mosaici della basilica di San Marco con le relative storie, di entrare nei teleri delle Gallerie dell’Accademia o nell’enorme tela (intrasportabile) di Gentile e Giovanni Bellini della Pinacoteca di Brera mentre il reliquiario di San Marco, giunto appositamente dai Musei Vaticani, è accanto a strepitosi manoscritti miniati e alla Pala Feriale di Paolo Veneziano, prestata eccezionalmente, e mai prima d’ora, dal Museo Marciano: forse il più importante dipinto dell’intero ‘300 veneziano, con le varie fasi della vicenda di Marco. Nella formella scelta ad immagine della mostra-evento si stagliano tutti i simboli della relazione fondante di questo racconto: il santo che dialoga con un mercante, una nave che indica la via del mare come mezzo e luogo dei contatti e delle relazioni, il faro di Alessandria d’Egitto – una delle sette meraviglie del mondo, a quell’epoca ancora esistente, e icona della città egiziana – gli edifici arabi chiaramente ripresi nell’architettura di Palazzo Ducale. La mostra dà anche conto del progressivo affermarsi, a partire dal 1261, dell’immagine del leone come simbolo dello stato marciano – da secoli legato a San Marco unicamente in ambito religioso – proprio nello stesso periodo in cui il sovrano del Cairo Baybars veniva soprannominato il “leone d’Egitto” e innalzava come insegna araldica un leone. Sin dalla metà dell’VIII secolo, quando il nascente impero abasside stabilitosi nella nuova città di Baghdad cominciò a disinteressarsi del mare, le navi veneziane alzavano le vele per dirigersi verso Oriente. Ma la storia dei rapporti pacifici tra Venezia e l’Egitto prende il via già in epoca romana, come testimoniano i tanti reperti rinvenuti in area veneta ed esposti in mostra, in una sorta di sezione-antefatto. Ecco dunque bolle dogali, monete, il Capitolare del cottimo di Alessandria, il bellissimo Leone marciano di Jacobello del Fiore accanto al Dinar d’oro di Baybar, con raffigurato il “suo felino”.

Longo la rotta del Levante: consoli, ambasciatori, mercanti e pellegrini. Durante tutto il Medioevo i rapporti tra Venezia e l’Egitto furono continui: la rotta del Levante fu costantemente percorsa dapprima da singoli commercianti che si avventuravano lontano dalla patria poi da vere e proprie imprese sostenute dallo stato veneto che organizzava le mude: convogli di navi che trovavano, nel procedere insieme, maggior sicurezza. Il grande affresco offerto dalla mostra in queste sezioni è affascinante: carte di navigazione, mappe, vedute del Cairo o di Alessandria come quella, eccezionale, di Georg Braun e Frans Hogenberg; astrolabi e globi celesti anche di provenienza egiziana per definire le conoscenze geografiche, la visione del mondo, le strumentazioni dell’epoca (bellissimo quello del 1225 prestato dal Museo di Capodimonte); monete veneziane e alessandrine, che consentivano gli scambi, e le conseguenti contraffazioni, un modello di galea di 4 metri, diari e lettere (anche quella in arabo del 10 gennaio 1473 inviata dal sultano mammalucco al doge Niccolò Tron), resoconti di mercanti, relazioni di consoli e ambasciatori incaricati di negoziare il miglior trattamento e la protezione per tutti i sudditi veneti. E poi, tessuti copti originali – di cui dà testimonianza iconografica in mostra anche il Marziale nel dipinto con la Cena in Emmaus – frammenti di antichissime ceramiche mammeluche, un tappeto cairota lungo quasi 10 metri prestato dalla Scuola Grande di San Rocco: un pezzo unico al mondo. A Venezia giungono e partono per le piazze di tutta Europa tanti prodotti esotici, ma la città lagunare diventa anche il porto privilegiato per il viaggio dei pellegrini, desiderosi di recarsi in Terra Santa: pensiamo a San Giovanni Elemosinario, nato a Cipro e le cui spoglie furono traslate a Venezia nel 1249, ricordato in mostra da una tela di Francesco Galizzi da Santacroce ambientata nella piazza di Alessandria d’Egitto e dal prezioso frontone dell’urna in legno dorato e policromo. Tanti sono i personaggi che riemergono dai documenti esposti nell’occasione, a testimoniare i legami fortissimi e gli interessi che legavano l’Egitto a Venezia che, nonostante i reiterati decreti papali che proibivano i commerci dei cristiani con mussulmani, continuavano a operare per mantenere attivi e prosperi i contatti richiedendo concessioni al Pontefice e se – del caso – pagando le dovute “penitenze” alla Camera Apostolica.

L’Egitto immaginato: i grandi artisti veneti alle prese con la terra dei Faraoni. Davvero spettacolare la sezione dell’Egitto immaginato, raffigurato, eternato dagli artisti veneti che affrontavano temi “egizi” nel dipingere le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento o episodi tratti da fonti classiche. Scorrono i grandi Maestri come Giorgione, Tiziano, Bonifacio Veronese, Tintoretto, Paolo Fiammingo, Strozzi, Fontebasso, Pittoni, Amigoni, Piazzetta, Giandomenico Tiepolo – con la serie completa di 27 incisioni sulle Idee pittoresche sopra la Fuga in Egitto – fino ad arrivare ai pittori ottocenteschi come Molmenti e soprattutto Pietro Paoletti, di cui viene esposta in mostra la grandiosa e appositamente restaurata (come molti altri pezzi) Morte dei primogeniti d’Egitto, della Pinacoteca di Brera, lunga quasi 3 metri e caratterizzata da un tale grado di resa filologica dei dettagli archeologici da legittimare l’ipotesi di un suo contatto con l’ambiente di Champollion, il decifratore dei geroglifici. Tra i soggetti testamentari più rappresentati ci sono il Patriarca Abramo, raffigurato per esempio nell’enorme tela di Antonio Zanchi proveniente da Santa Maria del Giglio Abramo che insegna astrologia agli Egiziani, e suo pronipote Giuseppe, figlio di Giacobbe. Giuseppe è ricordato sia nell’eccezionale opera di Tintoretto giunta per l’occasione del Museo del Prado Giuseppe e la moglie di Putifarre – in cui il protagonista, schiavo al servizio del comandante della guardie del Faraone Putifarre, danza per la moglie del sovrano egizio in un alcova dal soffitto cassettonato di sapore chiaramente veneziano; sia nella sontuosa tela di Amigoni, sempre dal Prado, e in due disegni di Fontebasso. Ma sarà soprattutto Mosè a ispirare artisti e committenti veneti: affascinante è il Mosè alla prova del Fuoco di Giorgione dagli Uffizi; di magniloquente impatto il Ritrovamento di Mosè di Bonifacio Veronese dalla Pinacoteca di Brera, ma anche i due strepitosi Pittoni (pure freschi di restauro): Il passaggio al Mar Rosso e il Ritrovamento di Mosè. Una gemma inedita è il Fontebasso, di collezione privata, che raffigura Mosè che calpesta la corona del Faraone. La carrellata ci consente anche di notare i diversi approcci con cui gli artisti affrontano il filone egiziano: dall’indifferenza al contesto, di totale fantasia come nei capricci tiepoleschi, alla ripetizione di schemi e di matrici iconografiche, all’oggettivazione descrittiva. L’attenzione all’ambiente si coglie maggiormente nei grandi teleri che ornano la Sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale: perfettamente in tema con le scene della battaglia di Lepanto, e quasi come contro altare, laddove la mostra non ha voluto soffermarsi sulle divisioni (che furono sostanzialmente episodiche) ma solo sull’incontro pacifico tra Venezia e l’Egitto. Poi ci sono i casi in cui il tema egizio è volutamente allegorico e sottende un intento di polemica politica, come nel caso della xilografia con la Sommersionedel Farone di Tiziano, che si pone all’indomani dalla costituzione della Lega di Cambrai nel 1508 e dell’attacco sferrato alla Serenissima dalle principali potenze d’Europa. Quindi il filologismo erudito di Paolo Fiammingo, nell’inedita tela forse eseguita per qualche letterato egittofilo, e gli esperimenti di due architetti come Piranesi e Jappelli, che inventano un “plausibile” stile egizio: il primo nella progettazione dei camini – di cui in mostra vi sono numerosi esemplari – il secondo nella famosa Sala Egizia del Caffè Pedrocchi a Padova, operazione storicistica all’insegna di un brillante eclettismo indagata anche grazie ad un video appositamente realizzato.

Intrecci culturali e grandi avventure. Dalla conoscenza alla contaminazione. Momenti espostivi successivi riguardano gli “intrecci culturali” con il Terzo Libro del Serlio che riporta il disegno della piramide di Cheope misurata addirittura dal patriarca di Aquileia Marco Grimani, o i testi di medicina e di botanica egizia di Prospero Alpini di Marostica, che portò notizie intorno a varie piante, tra cui quella del caffè; “l’editoria” con alcuni assoluti unica qui proposti, come il primo corano stampato in arabo a Venezia nel 1537-38; l’attenzione e la curiosità verso “i geroglifici” (pensiamo al Polifilo, all’Orapollo, al libro di Pierio Valeriano: tutti esposti); il “collezionismo” con le fascinose gemme gnostiche, con iscritte formule magiche, e alcuni bellissimi materiali egizi collezionati dai nobili veneziani (i Grimani, i Nani di San Trovaso, ecc), da pochissimo rintracciati e come tali qui presentati per la prima volta. Quindi, le grandi avventure della ricerca storico-scientifica ottocentesca: con Giovanni Miani geologo e naturalista che condusse una campagna di studio sul percorso fluviale del Nilo, e con quella sorta di “Indiana Jones” che fu Giovanni Battista Belzoni. Di Belzoni – personaggio straordinario, uno dei protagonisti dell’egittologia di cui si ricorda l’impresa del trasporto della gigantesca statua di Ramesse II fino al Nilo, la scoperta del tempio di Abu Simbel, della città di Berenice, della tomba di Seti I nella Valle dei Re e dell’ingresso della piramide di Chefren – troviamo in mostra oltre al ritratto, al passaporto e alle lettere autografe anche la serie completa delle incisioni acquarellate delle sue imprese. Tante curiosità esposte, collegabili a questi due personaggi emblematici di un nuovo, ulteriore interesse per l’Egitto: dalla straordinaria mummia egiziana di Nehmeket (1069-525 a.C.) conservata a San Lazzero degli Armeni, interamente ricoperta da una reticella realizzata con perline in pasta vitrea di vario colore, restaurate per l’occasione, alla maschera funeraria d’oro della XXVI- XXX dinastia proveniente da Trento; dalla collana di conchiglie del Nilo lunga 86 cm alla Mummia di coccodrillo – incarnazione del Dio Sobek , signore delle acque – recuperata dal Miani in una grotta nei pressi di Asiut e oggi conservata nel Museo di Storia Naturale di Venezia, nella sala a lui dedicata. Il lungo appassionante percorso si chiude con il vedutista bellunese Ippolito Caffi 11 bellissimi dipinti e 4 disegni raffiguranti l’Egitto, di eccezionale rilevanza per la poetica raggiunta e per il grado di oggettivazione documentaria e naturalistica – e con il Canale di Suez. Lo spettacolare dipinto di Alberto Rieger del 1864 preannuncia la definitiva apertura del Mediterraneo all’Oriente (l’inaugurazione del Canale è del 17 novembre 1869), grazie al progetto del trentino Luigi Negrelli e del veneziano Pietro Paleocapa, già autore dei principi interventi alle bocche portuali di Venezia. Il “canale del Faraone”, che il Senato veneziano aveva già progettato e perorato agli inizi del Cinquecento, diventava finalmente realtà. Questa mostra racconta di storia, cultura, arte, ma anche di sogni.